Lunedì sarà trascorso un mese dalla morte dell’ambasciatore Luca Attanasio e del carabiniere Vittorio Iacovacci, originario di Sonnino in provincia di Latina, uccisi lo scorso 22 febbraio, insieme al loro autista Mustapha Milambo, in un attacco contro un convoglio del World Food Programme nella Repubblica Democratica del Congo.
Diversi punti di quell’imboscata devono ancora essere chiariti. Primo tra tutti la responsabilità per le scarse precauzioni adottate per una missione in una zona, quella del Virunga national Park, definita dagli analisti “molto instabile” e dove sono operative oltre 120 milizie tra cui un gruppo affiliato all’Isis. Sul caso indagano l’Onu, le autorità italiane e quelle congolesi. Più dettagli ci sono sulla dinamica dell’agguato in sé. Nei giorni scorsi è emerso dai testimoni ascoltati sul posto dai Ros su delega del procuratore di Roma Michele Prestipino, che Attanasio e Iacovacci sono stati uccisi nel corso di un intenso conflitto a fuoco dal gruppo che voleva sequestrarli.
Le versioni dei testimoni avvalorano la ricostruzione secondo cui i due italiani sono morti non in un’esecuzione, ma colpiti dagli assalitori mentre il carabiniere tentava di portare l’ambasciatore fuori dalla linea di fuoco tra i sequestratori e i ranger, intervenuti immediatamente.
Per fare luce sulla matrice ed i motivi dell’agguato, gli inquirenti italiani stanno valutando di inviare a Goma una terza missione dei Ros per acquisire elementi sulla dinamica dei fatti e fare i necessari accertamenti balistici. I pm di Roma, inoltre, hanno inviato una rogatoria in Congo con cui si chiede di trasmettere gli atti delle indagini svolte finora dalle autorità congolesi.
L’Onu, intanto, ha concluso la sua inchiesta: le osservazioni sono state trasmesse all’Italia ma dovranno rimanere riservate.